Dipendente socio Infedele? L’infedeltà aziendale, Spionaggio industriale, concorrenza sleale, e sabotaggi sono reati in forte crescita .

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Dipendente infedele: attraverso l’abuso o l’uso scorretto di risorse aziendali si commette un reato.





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Dipendente infedele: attraverso l’abuso o l’uso scorretto di risorse aziendali si commette un reato.

 

 

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-valutare i rischi aziendali con tanta tecnologia espone l'azienda ad attacchi al know-how, in quanto i dipendenti infedeli che inviano dati aziendali o materiale riservato all'azienda concorrente sono in aumento sempre di più.

 

Secondo una ricerca le aziende perdono ogni anno circa il 5% degli utili dei ricavi in frodi . Creando cosi un notevole danno economico alle società commerciali. Normalmente le frodi, prima di essere scoperte , passano anni: L’azienda si accorge del danno quanto ormai è troppo tardi per porre rimedio. Questo succede perché l’imprenditore è occupato 18 ore al giorno per la produzione e commercio dei propri prodotti e non ha tempo per occuparsi della sicurezza (figura che manca nel 70% della aziende)

 

L’agenzia Agata Christie Investigation , con oltre 25 anni di esperienza nello smascherare gli infedeli,  offre un’ attività di investigazioni aziendali, con lo scopo di suggerire, prevenire e bloccare questi fenomeni di:

 

Concorrenza sleale, anti-frodi , frodi in commercio,  indagini atte ad  identificare gli autori, di infedeltà aziendale.

 

Siamo inoltre specializzati nelle Investigazioni finanziarie per accertare gli atti di sottrazione di denaro,  corruzione, e concussione. le irregolarità contabili e di controspionaggio.

 

La normativa vigente mira quindi a tutelare l’azienda contro ogni tipo di atteggiamento particolarmente sleale, messo in atto da dipendenti o soci, che potrebbe ledere o porre in posizione di svantaggio l’azienda stessa, come ad esempio il compimento, da parte di dipendenti, consulenti, soci o dirigenti,  atti di spionaggio e/o sabotaggio aziendale e/o comunque professionalmente scorretti.

 

La storia ci insegna che i dipendenti infedeli sono sempre esistiti  i quali mettono in atto o attività di spionaggio, concorrenza sleale, economico-finanziaria porta sempre più dipendenti a tradire il proprio datore di lavoro, trafugando brevetti, marchi, procedimenti e quant’altro in cambio di soldi… “ da parte della concorrenza sleale.

 

 

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Di seguito riportiamo delle sentenze recenti per infedeltà aziendale:


Simulazione della malattia e licenziamento: per la Cassazione il datore di lavoro può incaricare un’agenzia investigativa per accertarne la sussistenza e smentire la patologia.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 17113 del 16 agosto 2016
La sentenza 17113/2016 depositata il 16 agosto ha chiarito che i datori di lavoro possono contestare i certificati sanitari prodotti dai lavoratori anche basandosi su elementi di fatto dai quali emerge che la patologia è inesistente. Nel caso di specie, i giudici hanno esaminato il ricorso di un uomo, che nel 2012 è stato licenziato da un'azienda gelese in ragione di una “simulazione fraudolenta del suo stato di malattia” testimoniata dal compimento, da parte del lavoratore stesso, di numerose azioni e movimenti incompatibili con la dichiarata lombalgia. La Suprema Corte ha ribadito che il datore di lavoro può legittimamente verificare le condotte dei propri dipendenti ricorrendo ad agenzie investigative, estranee allo svolgimento dell'attività lavorativa, se c'è il sospetto che tali condotte possano influenzare in maniera negativa l'adempimento della prestazione dedotta in contratto. Pertanto, la Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa.

Legittimità del controllo dei lavoratori tramite agenzie investigative: limiti dell’attività.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 9749 del 12 maggio 2016

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha affermato che il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un'agenzia investigativa, finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 legge 5 febbraio 1992, n. 104 (contegno suscettibile di rilevanza anche penale) non riguarda l'adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell'orario di lavoro ed in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non può ritenersi precluso ai sensi degli artt. 2 (tutela del patrimonio aziendale) e 3 (vigilanza dell’attività lavorativa) dello Statuto dei lavoratori. Infatti, la Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che, nelle ore in cui aveva fruito di permessi ex legge n. 104 del 1992, concessi per l’assistenza alla suocera disabile, si era invece più volte recato ad effettuare lavori in alcuni terreni di proprietà. Questo comportamento, essendosi verificato in fase di sospensione dell’obbligazione della prestazione lavorativa, poteva essere oggetto di controllo da parte di un’agenzia investigativa.


Legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che abusa dei permessi ex L. 104/92: la Cassazione chiarisce quando l’investigazione privata viola lo Statuto dei Lavoratori.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 9217 del 6 maggio 2016 
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9217/2016, ha definito la legittimità del licenziamento per giusta causa, intimato al lavoratore che abusato de i permessi previsti dalla Legge 104/1992. Nel caso in esame, il datore di lavoro aveva svolto accertam enti per mezzo di un’agenzia investigativa rilevando che, seppure avesse richies to alcuni permessi ex Legge 104, il lavoratore si recava presso l’abitazione dell’assistita (cognata non convivente) affetta da grave disabilità per un numero di ore inferiore a quello previsto. Inizialm ente, il Tribunale di primo grado aveva dichiarato la nullità del licenziamento, poi la Corte d’Appell o aveva ribaltato la sentenza, così il lavoratore è ricorso in Cassazione. Secondo il parere dei giudici supremi, il ricorso all’investigatore privato non costituisce violazione delle norme contenute nello Statuto dei Lavoratori poiché: “Le disposizioni dell’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle in fermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle ver ifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza”.
 
Licenziamento per giusta causa del lavoratore in malattia che tiene una condotta di natura frodatoria: le prove raccolte da un’agenzia investigativa sono ammissibili. 
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 8709 del 3 maggio 2016 
La sentenza n. 8709 del 3 maggio 2016 riguarda un c aso di licenziamento per giusta causa comminato dal datore di lavoro, ad un dipendente ch e svolgeva una condotta di natura frodatoria in costanza di malattia grazie alle prove raccolte da un’agenzia investigativa. Nel caso di specie la Cor te di Cassazione ribadisce che nel nostro ordinamento è ammissibile la testimonianza e la relazione dell'agente investigativo che verta non sulla malat tia, ma sull'attività svolta (alla luce del sole) d al lavoratore in malattia. In questo senso, Cass. Sez. L. sentenza n. 25162/2014 che aveva ritenuto legittimi gli accertamenti demandati, dal datore di lavoro, a un'agenzia investigativa, e aventi a oggetto comportamenti extra-lavorativi, che assumev ano rilievo sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
 
La relazione investigativa dà prova dello svolgimento costante e non episodico di attività lavorativa del dipendente durante le assenze per dichiarata malattia.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 586 del 15 gennaio 2016
La pronuncia n. 586 del 15 gennaio 2016 riguarda un caso di licenziamento per giusta causa comminato dal datore di lavoro, in relazione allo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente in costanza di malattia. La Corte di Cassazione precisa come il giudice di merito abbia logicamente evidenziato che dalla relazione investigativa prodotta in giudizio, e dalla relativa deposizione testimoniale, “era emersa la prova dello svolgimento costante e non episodico di attività lavorativa”. La Suprema Corte aggiunge infine che, in ogni caso, è onere del lavoratore dimostrare la compatibilità dell'attività lavorativa svolta in favore di terzi, nel caso di specie presso l'esercizio commerciale della moglie, con l'infermità determinante l'assenza dal lavoro e col recupero delle normali energie psicofisiche.
 
Licenziamento per giusta causa del lavoratore che si allontana senza giustificazione durante l’orario di lavoro: sì al controllo investigativo con l’ausilio del sistema satellitare GPS.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 20440 del 12 ottobre 2015
La Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con sentenza n. 20440 del 12 ottobre 2015 si pronuncia sulla liceità di un licenziamento per giusta causa comminato ad un lavoratore grazie alle prove raccolte mediante attività investigativa, con l’ausilio del sistema satellitare GPS. Nello specifico, il dipendente si era allontanato in più occasioni dalla sede durante l’orario di lavoro, con il veicolo aziendale assegnato, “per trattenersi in bar o locali di tavola calda o comunque fuori della zona di attività dell’impresa, per conversare, ridere o scherzare con i colleghi”.
La Corte sottolinea come le modalità di controllo utilizzate dal datore di lavoro risultino assolutamente rispettose delle disposizioni di cui agli artt. 2, 3, 4 L. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), che non trovano applicazione in presenza di “comportamenti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale”, ancor più se il lavoro dev’essere eseguito, come nel caso in questione, “al di fuori dei locali aziendali”.
Ancora una volta la Suprema Corte ribadisce la pacifica ammissibilità dei controlli investigativi, anche con l’ausilio di supporti tecnologici, per documentare eventuali comportamenti lesivi del cd. “nesso fiduciario” che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato e tali da determinarne la risoluzione per giusta causa.

 
Legittimo il licenziamento disciplinare di un dipendente assente per infortunio che svolge altra attività lavorativa: determinante la relazione della società di investigazioni.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 20090 del 7 ottobre 2015
La Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 20090/2015 conferma la legittimità del licenziamento del dipendente che svolge altra attività lavorativa nel periodo di assenza dal lavoro per dichiarato infortunio.
Nel caso di specie, le attività svolte dalla società investigativa incaricata dal datore di lavoro hanno permesso di accertare che il dipendente in costanza di infortunio prestava la propria collaborazione presso la caffetteria gestita dalla figlia, compiendo azioni e movimenti incompatibili con lo stato di salute dichiarato. 
I giudici di legittimità hanno ritenuto tali comportamenti lesivi del vincolo fiduciario insito nel rapporto di lavoro subordinato confermando il consolidato orientamento secondo cui il lavoratore assente per malattia e/o infortunio viola l’obbligo di fedeltà, correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro nel momento in cui l’attività extra-lavorativa svolta risulta incompatibile con lo stato di infermità dichiarato tanto da essere indice di simulazione o tale da peggiorare o rallentare il processo di guarigione.
 
E’ lecito l’impiego di investigatori privati per documentare eventuali sottrazioni di cassa da parte di dipendenti.
Corte di Cassazione n. 25674, del 4 dicembre 2014
La sentenza della Corte di Cassazione n. 25674, del 4 dicembre 2014, conferma l’orientamento ormai consolidato che ritiene leciti i controlli da parte del datore di lavoro effettuati avvalendosi di agenzia investigativa, con lo scopo di documentare gli illeciti del lavoratore che non riguardino il mero inadempimento della prestazione, ma incidano sul patrimonio aziendale.
Viene pertanto ritenuto legittimo il licenziamento intimato per giusta causa alla cassiera sorpresa da investigatori, incaricati dal datore che nutriva dubbi, basati su circostanziati elementi di fatto, a sottrarre somme non contabilizzate.
Nel caso di specie è stata altresì ritenuta non sproporzionata la sanzione del licenziamento per giusta causa, giustificata nella sua gravità dall’accertata reiterazione del fatto (le somme erano state sottratte due volte a distanza di sole 48 ore) e delle funzioni particolarmente delicate e di responsabilità dell’addetta alla cassa: elementi che fanno venir meno il legame fiduciario alla base del rapporto di lavoro subordinato.
Se ne deduce pertanto che le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970, nel delimitare - a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali - la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi - e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3) -, non precludono in alcun modo il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, ad esempio, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale.
Conseguentemente, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento sul presupposto che, nel caso in esame, si era «trattato di controlli diretti a verificare eventuali sottrazioni di cassa» e quindi con scopo di salvaguardia del patrimonio aziendale.
 
Legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che sfrutta la malattia per assentarsi dall’azienda: è possibile avvalersi degli investigatori privati per verificare l’attendibilità del certificato medico.
Corte di Cassazione con sentenza n. 25162 del 26 novembre 2014
La Corte di Cassazione con sentenza n. 25162 del 26 novembre 2014, ha riconosciuto la legittimità del licenziamento per giusta causa ad un lavoratore il quale, in malattia per dichiarata lombosciatalgia acuta, aveva compiuto azioni incompatibili con la denunciata infermità. Secondo la Suprema Corte il datore di lavoro è legittimato ad ingaggiare investigatori privati allo scopo di far pedinare il dipendente che sfrutta la malattia per assentarsi.
L’art. 5 della legge n. 300 del 1970, infatti, non preclude che le risultanze delle certificazioni mediche possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto atta a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa. L’azienda può pertanto prendere conoscenza, attraverso l’utilizzo di investigatori privati, di comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. In tale contesto, può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppur compiuta al di fuori della prestazione lavorativa sia idonea ad arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, al datore di lavoro.
Nel caso di specie la condotta del lavoratore, rimasto assente per lungo periodo per dichiarata lombosciatalgia, rivelatasi insussistente o, comunque, non di rilevanza tale da impedire lo svolgimento dell'attività lavorativa, ha evidenziato una mala fede e slealtà nei confronti del datore di lavoro tale da incidere sul rapporto fiduciario e legittimare l’adozione di un provvedimento di licenziamento per giusta causa.
 
Il dipendente che è assente per malattia ma nello stesso tempo lavora presso un concorrente del suo datore di lavoro, viola il dovere di non concorrenza previsto dal suo contratto collettivo e può essere licenziato. 
Corte di Cassazione, sentenza 15365 del 4 luglio 2014 (sezione Lavoro)
Il caso esaminato dalla Corte è quello del macellaio di un supermercato che, assente per malattia dal suo posto di lavoro, svolge le stesse mansioni in un'altra impresa. Il suo datore di lavoro lo licenzia e il lavoratore ricorre al giudice del lavoro, sostenendo l'illegittimità dell'atto. Ha così inizio un'intricata vicenda giudiziaria. Tribunale e Corte d'appello danno ragione al lavoratore. La seconda, in particolare, giudica sproporzionata la sanzione del licenziamento, poiché l'attività svolta non ha compromesso la guarigione. La questione, quindi, arriva, una prima volta, in Cassazione, avendo il datore fatto ricorso per l'omesso esame, da parte della Corte di merito, della sua contestazione su una presunta violazione del divieto di concorrenza. I giudici di legittimità (sentenza 16375/2012) gli danno ragione e rinviano nuovamente la decisione nel merito alla Corte. Questa, a sua volta, giudica irrogabile il licenziamento secondo quanto previsto dall'articolo 151 del Contratto collettivo nazionale di lavoro, perché il lavoratore, nello svolgere attività lavorativa presso un'altra macelleria, ha violato il dovere di non concorrenza. A questo punto è il lavoratore licenziato a ricorrere in Cassazione, sostenendo l'insufficiente e contraddittoria motivazione. I giudici di legittimità, con la sentenza 15365/2014 del 4 luglio scorso, gli danno torto e riconoscono, invece, la correttezza della più recente decisione di appello. Risulta infatti che la Corte non solo abbia accertato in modo congruo e coerente la violazione dell'articolo 151 del Ccnl, constatando che il dipendente avesse lavorato in un esercizio concorrente, ma che abbia anche correttamente verificato la gravità della violazione, considerando la condotta sleale del dipendente che ha addotto una malattia presumibilmente insussistente (visto il contemporaneo lavoro presso altri).La logica conseguenza giuridica di questo ragionamento è il rigetto del ricorso e il riconoscimento della legittimità del licenziamento intimato al lavoratore. La sentenza 15365/2014 è particolarmente interessante perché, nel confermare il ragionamento dei giudici di merito secondo cui il lavoro presso imprese concorrenti costituisce violazione del divieto di concorrenza ed è quindi rilevante per un recesso datoriale, integra, in certa misura, anche la precedente giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cassazione 16375/2012) secondo cui il «doppio lavoro» costituisce giusta causa di licenziamento solo quando la nuova attività faccia presumere l'inesistenza di un'infermità che giustifichi l'assenza o questa sia tale, in relazione alla natura e alle caratteristiche dell'infermità denunciata e alle mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro, da pregiudicare o ritardare la guarigione del lavoratore.

 

 

 

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di lavoro ai fini di ricercare le prove dei comportamenti illeciti del lavoratore.

Con due recenti sentenze della Cassazione viene confermato, ancora una volta e dopo la modifica dell’art. 4 della l. 20/05/1970 n. 300 (statuto dei lavoratori) ad opera del d.lgs. 30/06/2015 n. 115, la legittimità dei controlli difensivi posti in essere dagli istituti di investigazioni volti ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore.

La prima sentenza prende in considerazione i controlli tecnologici e afferma che “In tema di cd. sistemi difensivi, sono consentiti, anche dopo la modifica dell’art. 4 st.lav. ad opera dell’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015, i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.

Nella specie, la Suprema Corte, in accoglimento del motivo di ricorso incentrato sulla violazione dell’art. 4 st.lav., ha cassato la pronunzia del giudice del gravame, sul rilievo che quest’ultimo, nel ritenere utilizzabili determinate informazioni poste a base della contestazione disciplinare ed acquisite tramite “file di log” in conseguenza di un “alert” proveniente dal sistema informatico, aveva omesso di indagare sull’esistenza di un fondato sospetto generato dall'”alert” in questione, di verificare se i dati informatici fossero stati raccolti prima o dopo l’insorgere del fondato L’investigatore può eseguire i controlli difensivi commissionati dal datore sospetto, nonché di esprimere la necessaria valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore.

Pertanto la possibilità di attivare i controlli difensivi è oggi ammessa nella misura in cui gli stessi siano mirati a singoli dipendenti, in relazione ai quali vi sia un fondato sospetto circa la commissione di un illecito e avvengano ex posto rispetto all’insorgere del sospetto stesso.

La supreme corte prosegue affermando che “La giurisprudenza di merito e la dottrina si sono poste la questione della eventuale sopravvivenza dei c.d. “controlli difensivi” dopo la modifica dell’art. 4 St. lav. ad opera del D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23. Ne’ dall’una ne’ dall’altra sono venute risposte univoche. La risposta è stata affermativa, i controlli difensivi, sopravvivono alle modifiche del 2015 relative all’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Fissa però alcuni punti che dovranno essere attentamente considerati dall’investigatore privato e precisamente che “Inoltre, e il punto e’ particolarmente rilevante nel caso in esame, per essere in ipotesi legittimo, il controllo “difensivo in senso stretto” dovrebbe quindi essere mirato, nonche’ attuato ex post, ossia a seguito del comportamento illecito di uno o piu’ lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto, sicche’ non avrebbe ad oggetto l’attivita'” – in senso tecnico – del lavoratore medesimo. Il che e’ sostanzialmente in linea con gli ultimi approdi della giurisprudenza di questa Corte, piu’ sopra richiamati, in materia di “controlli difensivi” nella vigenza della superata disciplina.

Poi conclude la corte di legittimità affermando il principio di diritto che “Sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purche’ sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla liberta’ di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignita’ e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.

Pertanto la Cassazione con la seconda sentenza sotto riportata, conferma la liceità dei controlli difesinvi in senso stretto affermando che “La giurisprudenza di questa Corte ha quindi elaborato, onde consentire al datore di lavoro di contrastare comportamenti illeciti del personale, la categoria dei c.d. “controlli difensivi”. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale piu’ recente e piu’ evoluto, “esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 4, comma 2, St. lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 1) e non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste, i “controlli difensivi” da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto piu’ se disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, cosi’ da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa. (Nella specie, e’ stata ritenuta legittima la verifica successivamente disposta sui dati relativi alla navigazione in internet di un dipendente sorpreso ad utilizzare il computer di ufficio per finalita’ extralavorative)” (Cass., 28 maggio 2018, n. 13266).

Da quanto sopra affermato risulta necessario che nel conferimento dell’incarico sia inserito il nome e il cognome del lavoratore che si intende controllare perché in caso contrario, e quindi mancando uno specifico soggetto a cui addebitare gli illeciti, si ravvisa a parere della corte l’impossibilità di applicare i principi sopra affermati.

L’inserire quindi il nome del soggetto su cui si pone l’indagine è anche indispensabile affinchè si possa uscire vittoriosi da un eventuale processo penale per molestia, instaurato dal soggetto pedinato versus l’investigatore privato.

Di seguito le sentenze in forma integrale

 

Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, sentenza 12 novembre 2021, n. 34092


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

SENTENZA

sul ricorso 14076/2019 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CARSO N 71, presso lo studio dell’avvocato NICOLA PAGNOTTA, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CESARE POZZOLI, ANGELO GIUSEPPE CHIELLO;

– ricorrente principale –

TAMBURI INVESTMENT PARTNERS S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI CAPRETTARI, 70, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GATTI, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLA TRADATI;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

F.A.;

L’allarme giunge dagli esperti , specialista nella produzione di software antivirus: nei prossimi anni lo spionaggio informatico subirà un’impennata. Secondo gli esperti “i criminali passeranno ad attacchi lampo per rubare credenziali finanziarie, aziendali e politici, ad approcci più avanzati quali i segreti delle aziende, piccole o grandi che siano e per mettere le mani sui sistemi di produzione e l’originalità dei prodotti attraverso l’acquisizione di dati relativi a brevetti e processi industriali.

Una volta carpite le informazioni le venderanno o le useranno per atti di concorrenza sleale ecc; questa piaga che potrebbe sottrarre le ultime risorse disponibili in termini di idee e know how alle imprese già stremate dalla crisi e dalla concorrenza spietata.

Conoscere, ottenere informazioni, cercare fonti e prove, acquisire dati, documentare fatti, individuare testimoni, raccogliere dichiarazioni, sono le attività operative ed informative che l’Agenzia IDFOX  mette in campo nel rispetto della vigente legislazione e delle esigenze dei clienti.

Ransomware, due aziende su tre sono colpite dal malware che prende i dati in ostaggio. Colpita anche Coca-Cola con richiesta di maxi riscatto

Il 66% delle aziende sono state colpite da un attacco ransomware nell'ultimo anno. Lo evidenzia il nuovo rapporto “State of Ransomware 2022” realizzato a cura di Sophos. Quintuplicato rispetto allo scorso anno il riscatto medio pagato per recuperare i dati, che si attesta sui 812.360 dollari, e il 46% delle aziende i cui dati sono stati criptati a seguito dell’attacco ha deciso di pagare il riscatto.

 

Il Rapporto globale nella sicurezza informatica, analizza l’impatto che il ransomware ha avuto su 5.600 aziende in 31 paesi nel mondo, Italia compresa.

Nel nostro Paese, il 61% del campione di aziende prese in esame nel rapporto è stato colpito da ransomware nell’ultimo anno mentre il 27% si aspetta di essere colpito in futuro. Delle aziende italiane colpite da ransomware, il 63% ha subìto la crittografia dei file, mentre il 26% è riuscito a bloccare l’attacco prima che i dati venissero criptati.

Il 43% ha pagato il riscatto e ha recuperato i propri dati, mentre il 78% dichiara di essere riuscito a recuperare i dati grazie al proprio backup. Tra le aziende italiane che hanno pagato il riscatto, il 24% ha recuperato circa la metà dei propri dati e solo il 3% è riuscito a recuperare la totalità dei dati sottratti dai cybercriminali.

L’entità del riscatto pagato si attesta nella maggior parte dei casi (37% del campione) tra i 100.000 e i 249.999 dollari.

Il 55% delle aziende italiane colpite ha dichiarato che l’impatto sulla propria operatività di business è stato molto alto e che il recovery time è stato fino a 1 settimana per il 36%, fino a un mese per il 34%, mentre solo l’11% del campione ha ripristinato la normalità in meno di un giorno.

Per quanto riguarda l’assicurazione dai rischi cyber, il 47% del campione dichiara che la propria polizza copre anche i danni causati da un attacco ransomware, il 7% pur avendo un’assicurazione cyber non ha copertura per questa tipologia di attacco e il 5% del campione dichiara che la propria azienda non ha un’assicurazione contro i rischi cyber.

 

Nello scenario internazionale, proprio nelle ultime ore è stata data notizia che il gruppo ransomware Stormous ha annunciato di aver colpito la multinazionale Coca-Cola Company, e di aver esfiltrato oltre 160 GB di dati. Il riscatto richiesto all’azienda sarebbe di oltre 64 milioni di dollari statunitensi, ovvero 1,6467000 Bitcoin. A quanto pare, il gruppo di criminali informatici avrebbe anche lanciato prima un sondaggio sul proprio gruppo Telegram chiedendo agli utenti di scegliere il prossimo bersaglio, e la Coca-Cola Company avrebbe “vinto” con oltre il 70% di preferenze.

Consapevole degli enormi rischi che comporta per le imprese che vengono colpite da questo pericoloso tipo di malware, il Gruppo di Lavoro per la sicurezza delle informazioni che opera in seno agli organi competenti, a nelle scorse settimane ha realizzato una specifica infografica a scopo informativo e divulgativo, che è liberamente scaricabile dal sito dell’associazione, e che ha già registrato oltre 1.000 download.

 

 


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L’agenzia  IDFOX ha esperienza ultra ventennale nelle indagini aziendali, controspionaggio industriale e concorrenza sleale; poiché conosciamo le dinamiche aziendali, i rischi connessi alla globalizzazione dei mercati e l’alta tecnologia, sappiamo che le imprese sono sempre più a rischio di spionaggio industriale, concorrenza sleale, infedeltà dei soci, dipendenti, fuga di notizie, attività illecite, danneggiamento di macchinari. Impedire il normale svolgimento delle attività lavorative compromette l’attività dell’azienda e la sua crescita.
Per scoprire attività illecite di spionaggio industriale, concorrenza sleale o investigazioni aziendali per assenteismo, fuga di notizie ecc. sono indispensabili delle attività investigative di “intelligence”.

Appropriazione di file aziendali: cosa si rischia?

Licenziamento e responsabilità penale per il reato di appropriazione indebita in capo al dipendente che fa il backup dei file o che trasferisce i dati informatici dal computer aziendale a quello personale (anche tramite email).

Non è infrequente che un dipendente faccia il backup dei dati salvati nel computer aziendale su cui ha lavorato per anni. E lo faccia, ovviamente, non certo per “ricordo” ma per avvalersene in una eventuale successiva attività “in proprio” o alle dipendenze di un concorrente. Ebbene, cosa si rischia per l’appropriazione di file aziendali? Di tanto si è occupata più volte la giurisprudenza. Ecco una sintesi delle principali pronunce che si sono occupate di questo spinoso argomento.

Indice

* 1 Furto di documento e backup di file aziendali

* 2 Accesso abusivo a sistema informatico

* 3 Appropriazione indebita

Furto di documento e backup di file aziendali

Secondo una recente sentenza della Cassazione [1] è legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore che abbia sottratto documenti aziendali contenenti informazioni “sensibili” relative all’esercizio dell’attività d’impresa (‘know-how’).

La regola in materia di licenziamento è quella secondo cui intanto si può risolvere il rapporto di lavoro in quanto il comportamento viene ritenuto così grave da ledere definitivamente il rapporto di fiducia che deve sussistere tra datore e dipendente. Tuttavia, nel caso di furto di documenti o appropriazione di file aziendali, ai fini della valutazione della gravità della condotta non ha rilievo alcuno la natura del materiale sottratto, ossia la circostanza che il lavoratore non abbia potuto trarre un’effettiva utilità dalla documentazione (si pensi a file ormai datati e privi di alcun valore commerciale). Infatti, secondo la Cassazione, basta accertare la provenienza aziendale del materiale sottratto: già tale comportamento, a prescindere dalle ripercussioni economiche per il datore e dalla utilizzabilità dei documenti, può definirsi sufficientemente grave per far perdere ogni rapporto di fiducia nel corretto operato del lavoratore. 

Né rileva – aggiunge la Corte – che i file “backuppati” o la documentazione sottratta sia di normale consultazione o che ne sia consentita l’asportazione al di fuori dei locali aziendali. Anche qui vale lo stesso ragionamento di prima: basta il semplice fatto di aver voluto utilizzare per scopi extralavorativi il materiale per configurare come grave il comportamento e quindi passibile di sanzione disciplinare.

Ai fini dell’adozione del licenziamento rileva, quindi, la sola provenienza aziendale della documentazione.

L’orientamento non è nuovo. Già in passato, la Cassazione [2] aveva confermato il licenziamento di un lavoratore sorpreso mentre trasferiva su una pen-drive di sua proprietà un numero consistente di file informatici e dati appartenenti all’impresa. Anche in tal caso è stata riconosciuta la legittimità del licenziamento del lavoratore. In tale occasione, i giudici hanno rilevato che, per poter parlare di illecito disciplinare e applicare la relativa sanzione espulsiva, non rileva che:

* i dati non siano stati divulgati a terzi: basta la semplice sottrazione;

* i dati non siano protetti da password. Difatti la circostanza che al lavoratore sia consentito accedere alla documentazione non lo autorizza ad appropriarsene, «creando delle copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro».

Accesso abusivo a sistema informatico

Passiamo dall’ambito civile a quello penale. Un reato spesso commesso in ambito aziendale è quello di accesso abusivo a sistema informatico. Si verifica tutte le volte in cui un dipendente acceda alla postazione di un collega per reperire dati a cui altrimenti, dal proprio computer, non avrebbe accesso. Stesso discorso nel caso in cui, tra i due colleghi, vi sia cooperazione, sicché l’uno invii all’altro i file o le informazioni in questione [3].

L’accesso al sistema informatico della società non è uguale per tutti: alcuni infatti possono consultare tutte le informazioni di “base” della clientela (nomi, cognomi, indirizzo, tipologia di contratto, ecc.); altri invece hanno la possibilità di visualizzare ulteriori dati più riservati, anche sensibili come ad esempio il reddito dichiarato, eventuali rischi collegati alla persona e alla sua attività, trascorsi penali, ecc.

Se un dipendente ha bisogno di analizzare alcune informazioni relative a un cliente e il suo computer non dispone delle autorizzazioni necessarie per visualizzare l’intera scheda, potrebbe chiedere a un collega di inoltrargli il file dalla sua postazione, invece abilitata a tale verifica.

Quest’ultimo potrebbe, anche solo per mera cortesia, “girare” la mail con l’allegato. Tale condotta può costituire reato? Assolutamente sì. Lo hanno confermato anche le Sezioni Unite [4] secondo cui integra il delitto di accesso abusivo a sistema informatico la condotta di «colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso». Sono «irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema». Lo stesso reato scatta nei confronti di chi, «pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita» [5]. 

Secondo i giudici della Cassazione, dunque, in base agli orientamenti delle Sezioni unite, deve ritenersi responsabile di accesso abusivo al sistema informatico anche colui che abbia fatto sorgere il proposito criminoso nel collega (autore materiale del reato), istigandolo all’invio delle email contenenti informazioni riservate cui egli non poteva accedere perché non abilitato dal datore di lavoro in ragione del fatto che la conoscenza di tali informazioni non era necessaria ai fini dello svolgimento dei suoi compiti.

Appropriazione indebita

Sempre secondo la Suprema Corte [6], si può parlare di responsabilità penale del lavoratore per il reato di appropriazione indebita nel caso in cui questi restituisca al datore di lavoro il computer aziendale formattato, dopo aver copiato i dati ivi contenuti su un dispositivo personale.

Il reato di appropriazione indebita punisce con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 1.000,00 a 3.000,00 euro chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropri di una cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Ai fini dell’integrazione degli estremi del reato, il soggetto deve quindi indebitamente appropriarsi di una ‘cosa mobile’ altrui. E tale anche la cosa immateriale, come un un dato informatico o un file contenuto in un computer, anche se dato in dotazione al dipendente dall’azienda stessa. I file infatti continuano ad essere di proprietà dell’azienda stessa.

Naturalmente, il reato di appropriazione indebita non richiede necessariamente il backup dei file su una pen-drive. Ben potrebbe configurarsi la responsabilità penale per il semplice fatto di inviare i file tramite email dall’account aziendale a quello personale in modo da salvarli poi a casa su un altro hard disk.

 

note

[1] Cass. sent. n. 2402/22 del 27.01.2022.

[2] Cass. sent. n. 25147/17 del 24.10.2017. 

[3] Cass. sent. n. 565/2018.

[4] Cass. S.U. 27 ottobre 2011, n. 4694

[5] Cass. S.U. 18 maggio 2017, n. 41210.

[6] Cass. sent. 10 aprile 2020, n. 11959.



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